Michele Pellegrino nacque il 23 aprile 1903 a Ruata Chiusani di Centallo, in provincia di Cuneo, e scomparve a Torino il 10 ottobre 1986. Figlio di Angela Ristorti e di Giuseppe, famiglia di modeste condizioni, fu battezzato il giorno dopo la nascita dal parroco don Bartolomeo Fiandino, nella chiesa parrocchiale di San Bernardo. Al quarto mese di vita, morì la mamma Angela di tifo. Nel 1913 entrò nel Seminario minore della sua diocesi, Fossano, il cui rettore era il canonico Lorenzo Marchese Rossi, quando era ancora vescovo l’intransigentissimo Emiliano Manacorda.
Fu ordinato sacerdote nel 1923 dal vescovo Quirico Travaini: durante la formazione seminarile aveva rivelato interessi e attitudine letterarie. Dopo l’ordinazione sacerdotale, colpito da una conferenza tenuta nel liceo scientifico di Mantova da padre Agostino Gemelli, fondatore e rettore dell’ateneo ambrosiano, decise di iscriversi all’Università Cattolica di Milano, in vista di un suo impiego come docente d’italiano nel liceo fossanese. Durante la permanenza a Milano, si affidò alla direzione spirituale di mons. Francesco Olgiati, segui i corsi di Giulio Salvadori, si formò alla scuola filologica di Gino Funaioli, laureandosi nel 1929 con Pietro Ubaldi in letteratura cristiana antica con una tesi su La poesia di S. Gregorio Nazianzeno, pubblicata poi nel 1932. Nel 1928 trascorse un periodo di studio a Friburgo, in Germania.
Ritornato in diocesi, fu nominato direttore spirituale del Seminario e, in vista di una sua nomina a canonico teologo della cattedrale, si iscrisse alla Facoltà teologica di Torino, ove si laureò nel 1932. Nel 1933 ottenne anche la laurea di filosofia, sempre presso l’Università Cattolica milanese, con una tesi su Gregorio di Nissa, parzialmente poi edita nella “Rivista di filosofia neoscolastica” . All’epoca risalgono le sue prime letture di Maritain, poi completate con le opere maggiori del filosofo francese – di cui, tuttavia, Pellegrino non ebbe modo di approfondire veramente il pensiero – e, sotto la guida di Olgiati, si accostò alla spiritualità berulliana. Figura ormai di spicco nel clero fossanese, si trovò impegnato, nei primi anni ’30, su molteplici fronti. Alla direzione spirituale del seminario – dove impose l’obbligo della lettura integrale della Bibbia – si aggiunsero la nomina a vicario generale e capitolare, l’insegnamento di spiritualità (ascetica e mistica) e di greco in Seminario, la presidenza della giunta diocesana di AC, l’assistenza spirituale della gioventù femminile, la direzione del giornale cattolico locale “La fedeltà” (dal 1930), un’intensa attività pubblicistica e divulgativa nel campo della direzione e dei commenti ai Vangeli – con numerosi contributi sui periodici “L’assistente ecclesiastico” e “ La rivista del clero italiano” – e la compilazione di sussidi catechistici e apologetici, corsi di conferenze specialmente dedicati agli insegnanti – come quelli raccolti poi nel volume Il vangelo nella scuola (1932) – per non parlare dei mai abbandonati studi di letteratura cristiana e di patristica, via via estesi a nuovi autori come S. Giovanni Crisostomo e Sant’Agostino e riflessi, tra l’altro, poco più tardi, nella pubblicazione di passi dei Padri a commento delle feste liturgiche sulla rivista “Fides” di Igino Giordani. In questo periodo non mancarono neppure, al Pellegrino direttore di giornale e promotore dell’Azione cattolica, occasioni di frizione, specie nel regime, che provvidero in varie occasioni al sequestro di “La fedeltà”. Nel 1938 si verificò una prima svolta nella vita di Pellegrino. Proposto dal grande classicista Augusto Rostagni come lettore di latino presso la Facoltà di lettere di Torino, fece il suo ingresso in un’università statale, dove nel 1941 ottenne l’incarico di insegnamento della letteratura cristiana antica e, nel 1948, la cattedra della medesima disciplina.
Da allora fino al 1963 l’università fu la sua “parrocchia” – come ebbe a dire Pellegrino svolse la propria funzione di docente rifuggendo sia dall’accademismo sia da preoccupazioni apologetiche in senso confessionale, ma guardò con intensa partecipazione agli urgenti problemi di aggiornamento, di sprovincializzazione, di revisione profonda della cultura circolante nella Chiesa e nel mondo cattolico italiano. Sotto questo profilo, il dispiegarsi della ricerca scientifica nel campo che gli era proprio e congeniale – e che si tradusse in un’ingente produzione e in una significativa presenza sul piano internazionale, confermata dalla sua sistematica frequentazione delle conferenze patristiche di Oxford – risultò in Pellegrino organicamente connessa alla partecipazione costante, e ben radicata in un senso forte della tradizione, al processo di rinnovamento della Chiesa non limitato al piano intellettuale, ma esteso a quello liturgico, spirituale, ecclesiologico. Agivano in questa direzione anche altri fattori: anzitutto la rete di amicizie in cui Pellegrino era inserito, tra le quali facevano spicco figure di ecclesiastici, come don Guano, don Costa, don Bussi, don Barra, e dei laici, come lo storico francese specialista in storia del cristianesimo antico Henri-Irénée Marrou; poi i rapporti assai intensi con i propri allievi – alcuni dei quali si sarebbero affermati come studiosi del fatto e dei testi cristiani – e in genere con l’ambiente universitario; infine i collegamenti, sul piano locale e nazionale, con gruppi vivaci e non conformisti del mondo cattolico, come quelli della FUCI, dei Laureati cattolici, del Comitato cattolico dei docenti universitari. Per queste ragioni la personalità di Pellegrino uomo di studio e di ricerca appare inscindibile da quella di Pellegrino uomo di fede e di Chiesa e, in un senso molto particolare, pastore di anime. Mentre, sul piano scientifico, Pellegrino venne estendendo i propri campi d’indagine a problemi e figure dell’apologetica vetero-cristiana, ai rapporti tra cristianesimo antico e cultura classica, alle concezioni cristiane – e più particolarmente agostiniana – della storia come storia della salvezza, progettando anche e promuovendo edizioni italiane di testi e studi patristici (e realizzando, con un gruppo di docenti dell’Università torinese, la pubblicazione “Rivista di storia e letteratura religiosa” il cui primo fascicolo vide la luce nel 1965) altrettanto rilevante fu la sua presenza e la sua voce quale conferenziere, collaboratore di periodici e di giornali di cultura (“Studium”, “Il Nostro Tempo”, “Ricerca”), animatore di incontri spirituali su scala locale e nazionale, specialmente nel quadro dei movimenti cattolici universitari, intellettuali e professionali. Cosi, nel 1955 tenne una relazione su “Scuola ed educazione integrale dell’uomo” alla XXVIII Settimana sociale dei cattolici, a Trento; nel 1957 svolse impegnativi interventi al XIX Congresso dei Laureati cattolici dedicato a “L’anima religiosa del mondo d’oggi”. In quella sede insistette con particolare vigore nell’attribuire ai credenti nella società moderna un ruolo analogo a quello descritto dall’antico testo dell’A Diogneto, e nel tracciare un parallelismo tra il contesto della cultura contemporanea e l’opera dei Padri, che avevano assunto i valori autentici del pensiero classico decantandoli ed elevandoli “nella integralità del pensiero cristiano”. Le sue qualità di studioso, la profondità della sua vita spirituale, i rapporti con alcune figure eminenti del clero che si può convenzionalmente definire “montiniano” non furono estranei all’inattesa, e da lui stesso invano contrastata, nomina ad arcivescovo di Torino da parte di Paolo VI il 18 settembre 1965, seguita all’insediamento nella diocesi il 21 novembre dello stesso anno. Era la, prima volta che un semplice prete, docente in un’università statale, saliva sulla cattedra metropolitana di San Massimo, grande figura di vescovo al quale Pellegrino aveva dedicato (e continuò a dedicare) la propria attenzione di studioso. Come arcivescovo di Torino – nominato cardinale durante il concistoro del 26 giugno 1967 – partecipò all’ultima sessione del Concilio Vaticano II, svolgendovi due impegnativi e argomentati interventi, dedicati al diritto di libertà di ricerca scientifica del clero e alle condizioni di sviluppo della cultura ecclesiastica. La situazione della Chiesa e della società torinese in cui Pellegrino fu chiamato ad adempiere il proprio mandato pastorale, presentava un’immensa mole di problemi e di difficoltà. Si trattava di una grande diocesi, fortemente disomogenea dal punto di vista territoriale, culturale e sociale, segnata economicamente dalla presenza pervasiva di un’industria automobilistica in piena espansione. La diocesi era per di più percorsa dalle tensioni aperte dall’impetuoso flusso migratorio degli anni precedenti, dall’acuirsi dei conflitti sindacali, dall’accelerazione dei processi di secolarizzazione e, non molto tempo dopo l’insediamento del nuovo vescovo, dai movimenti studenteschi e operai del 1968-69, che a Torino ebbero uno dei punti di maggior virulenza, e dai movimentidi contestazione che investirono in profondità anche la vita religiosa e la struttura ecclesiastica. Sebbene privo di precedenti esperienze episcopali, - e, in senso stretto, di cura d’anime – Pellegrino mostrò si dall’inizio di voler orientare la sua azione a ben definite linee ispiratrici riconducibili ad un’opizione fondamentale: l’applicazione, senza attenuazioni e senza forzature, dei dettati del Concilio, promuovendo anzitutto la conoscenza dei documenti conciliari presso i fedeli e presso un clero diocesano dai prevalenti tratti conservatori. A ciò provvide in prima persona, dedicandosi ad un’intensa attività omiletica e a scritti interpretativi, divulgativi ed esplicativi, tra i quali fecero spicco quelli poi raccolti nel volume Lumen Gentium, Commento pastorale e I grandi temi della “Gaudium et Spes” (Fossano 1966 e 1967). Inoltre mise immediatamente in atto le prescrizioni conciliari concernenti l’attivazione di “consigli” elettivi, in particolare del Consiglio pastorale diocesano, composto in maggioranza da laici, dotato di ampie competenze consultive, entrato in funzione nel novembre 1966, e divenuto, non senza contrasti, difficoltà e opposizioni, uno dei centri animatori del governo della diocesi. Rilevanti energie Pellegrino dedicò ad un’opera di ristrutturazione della diocesi in zone e alla sua organizzazione – procedendo tra l’altro alla trasformazione del Centro cappellani del lavoro in un Centro di evangelizzazione del mondo del lavoro – nonché alla conoscenza capillare della realtà diocesana. A questo fine avviò una visita pastorale che si protrasse, in pratica lungo tutto il periodo episcopale, anche allo scopo di sollecitare la penetrazione periferica dello spirito e delle riforme conciliari. Ma se il senso più profondo dell’episcopato di Pellegrino non appare riconducibile ad una, pur cospicua, serie di atti innovativi, ma sembra piuttosto consistere nel modo di concepire il ruolo episcopale come ruolo eminentemente pastorale, che senza rifuggire dal dovere delle decisioni, anche rigorose e impopolari, fosse tuttavia contrassegnato dalla disponibilità al dialogo, e dalla faticosa ricerca di una parola evangelica capace di misurarsi con i problemi, gli interrogativi, le sollecitazioni provenienti da un corpo sociale più ampio della comunità ecclesiale e da un contesto altamente conflittuale.
In questo quadro va situata la lettera pastorale "Camminare insieme", il documento più impegnativo dell’intero suo episcopato, datata 8 dicembre 1971, ma pubblicata il 15 gennaio 1972. La lettera, destinata a suscitare vasta eco e reazioni anche polemiche, si distaccava dai documenti dello stesso genere sia per i contenuti sia per le metodologie seguite nella sua stesura. Essa era il frutto di un lavoro preparatorio svoltosi per la durata di un anno, e di una consultazione della comunità ecclesiale torinese che ebbe nel Consiglio pastorale il suo principale centro di discussione e di coordinamento, ed in uno dei convegni dei consigli diocesani, annualmente svolti al santuario di S. Ignazio, presso Lanzo, il suo momento conclusivo e di sintesi. L’elaborazione della pastorale, che secondo le intenzioni di Pellegrino doveva tracciare i lineamenti fondamentali di un programma di azione per tutta la diocesi, portò anche alla luce le rilevanti diversità di prospettive, di culture teologiche e di esperienze in atto nella Chiesa torinese. L’animato dibattito, non esente da asprezze, tra le diverse anime del cattolicesimo torinese, avrebbe trovato difficilmente una sintesi soddisfacente se lo stesso Pellegrino, pur sviluppando una prospettiva approvata a maggioranza dal Consiglio pastorale - e incentrata sui temi della conversione e dell’annuncio, declinati secondo i tre aspetti della fraternità, della povertà e della libertà – non avesse impresso al documento una forte impronta personale, ponendo un accento particolare sul tema della povertà, intesa anzitutto come dovere della Chiesa per se stessa e poi come modo di tradurre “il dovere evangelico della preferenza per i poveri” nei termini nuovi di una “scelta di classe”: non limitata peraltro al mondo operaio – al quale Pellegrino aveva sin dall’inizio dedicato una particolare e specifica attenzione – ma a tutti gli strati e le categorie sociali “che non contano, di cui si dispone senza chiedere il loro parere, i cui membri per il solo fatto di appartenervi non riescono a farsi sentire, a far valere i propri diritti, ma restano automaticamente emarginati, esclusi dal progresso, dalla cultura, dalle responsabilità”. La Camminare insieme costò a Pellegrino una serie di attacchi provenienti dalla destra politica ma anche dagli ambienti benpensanti del mondo cattolico, che non esitarono a raffigurare il vescovo di Torino come pericolosamente sbilanciato a favore del movimento operaio, trascurando le sue esplicite e dure prese di posizione circa l’incompatibilità ideologica di fondo tra cristianesimo e marxismo, che gli valsero peraltro, pesanti rilievi critici sul fronte dei movimenti cattolici di base. Verso i quali egli adottò in genere un atteggiamento di ascolto ma denunciandone e condannandone con forza gli esiti radicali, da lui giudicati in aperto conflitto con la disciplina, la morale e la dogmatica cattolica. L’attenzione rivolta all’evangelizzazione del mondo del lavoro – un mondo che Pellegrino aveva poco frequentato nelle sue precedenti esperienze- si saldò con un rinnovato impegno pastorale verso il mondo e problemi della cultura e della scuola. Particolare rilievo ebbero, in proposito, i due discorsi al Movimento laureati cattolici di Torino, del 1972 e del 1973, dedicati a “Il servizio culturale nella Chiesa e nella società contemporanea” e a “La fede nella storia: il problema della cultura” in cui ebbe modo di esporre le proprie convinzioni circa la non riducibilità del cristianesimo a una cultura, la pluralità di culture come dato di fondo della storia cristiana, l’esistenza di culture più aperte di altre all’accoglimento del messaggio cristiano. In materia scolastica diede impulso ad una riflessione critica sul ruolo della scuola cattolica, pur riconoscendo che il divieto di contributi statali rendeva di fatto “inoperante la libertà scolastica sancita dalla Costituzione” e sollecitò l’impegno dei docenti e delle famiglie cattoliche nella scuola pubblica.
Nel prorompente dibattito politico degli anni ’70 – intensificatosi in occasione del referendum sul divorzio del 12 maggio 1974, della vittoria delle sinistre nelle elezioni amministrative del 1975 con la conseguente formazione di “giunte rosse” in quasi tutte le maggiori città tra cui Torino, e in seguito alla candidatura di noti esponenti cattolici nelle liste del PCI nelle elezioni politiche del 1976 – Pellegrino assunse posizioni che gli costarono un certo isolamento nella Chiesa italiana e rinnovati attacchi personali. Con una notificazione del marzo 1974 concernente il referendum sul divorzio, a commento di un analogo comunicato del Consiglio permanente della CEI, ribadiva il dovere per i fedeli di adoperarsi “perché fossero salvati i valori fondamentali del matrimonio e della vita familiare (. . .) avendo sempre di mira il bene comune”. Riconosceva tuttavia come comprensibili “sensibilità diverse” su una “realtà cosi varia e complessa come quella della situazione politica e sociale italiana sulla quale il referendum poteva avere ripercussioni non facilmente prevedibili”. Soprattutto, “data la natura civile e politica del referendum”, richiamava fermamente il dovere delle comunità cristiane in quanto tali – “diocesi, zone vicariali, organismi consultivi e commissioni diocesane, parrocchie, istituti e associazioni cattoliche” – a non prendere in proprio iniziative che significassero “l’assunzione di responsabilità diretta nei compiti che la legge sul referendum affida ai promotori”.
Nell’agosto 1975, al ritorno da una lunga visita in America Latina – area di grande povertà ma anche di fermenti politici e religiosi a cui Pellegrino dedicò negli ultimi anni di episcopato crescenti energie, instaurando collegamenti e relazioni stabili con le chiese locali – ritenne necessario precisare il suo pensiero e i suoi orientamenti sul pluralismo politico e sui rapporti tra i cattolici e i movimenti marxisti. Lo fece in occasione dell’annuale convegno di S. Ignazio, dedicato tra l’altro alla preparazione del convegno ecclesiale nazionale su “Evangelizzazione e promozione umana”. Il senso degli interventi di Pellegrino in quella sede fu quello di indicare le vie per far convivere la “legittimità del pluralismo” con l’istanza della “piena comunione” ecclesiale. In questa cornice Pellegrino collocò le sue riflessioni sul marxismo, che riprendevano gli spunti dell’enciclica Pacem in terris circa la distinzione tra “dottrine erronee” e “movimenti storici che erano derivati”, ma con una accentuata richiesta rivolta ai credenti da adottare come criterio di valutazione i “comportamenti pratici” dei movimenti marxisti attenendosi alla regola di non confondere la collaborazione legittima e doverosa intorno a problemi “che richiedono lo sforzo comune in vista del bene della collettività” con la confusione ideologica. Pur rifiutando di comminare scomuniche o condanne nei riguardi dei gruppi e delle comunità cattoliche torinesi che avevano sostenuto la legittimità di “militanze politiche” estese al PCI, gli interventi del vescovo davano una risposta pacata ma sostanzialmente negativa alle tendenze, presenti nella cattolicità torinese, ad utilizzare schemi e metodi del marxismo per l’interpretazione della realtà. Pellegrino dimostrava di non essere disponibile, per cultura e convinzione, a inoltrarsi su questo terreno.
Il 1° gennaio 1977 Pellegrino annunziò inaspettatamente le dimissioni dall’episcopato, prima di raggiungere i previsti limiti di età. Le tensioni che avevano accompagnato il suo svolgersi e i dissensi suscitati a più riprese, anche nella CEI e nella curia romana, dalle sue iniziative e dalle sue prese di posizioni, lo indussero probabilmente ad anticipare la scadenza del suo mandato pastorale. Visse gli anni successivi nel ritiro di Vallo Torinese, dedicandosi in prevalenza ai suoi amati studi e alla coltivazione delle numerose amicizie, e affrontando con coraggio e sopportazione le difficoltà di uno stato di salute via via più precario, aggravato da un ictus cerebrale che nel 1982 gli tolse l’uso della parola e lo costrinse ad una lunga degenza, durata sino alla morte, all’età di 83 anni, nell’Istituto Cottolengo di Torino.
(Fonte: Francesco Traniello, ad vocem, Dizionario storico del movimento cattolico. Aggiornamento 1980-1995, (a cura di F. Traniello e G. Campanini), Marietti 1820, Genova 1997.
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